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Fin dagli esordi nei primi anni Sessanta, Giulio Paolini ha orientato la propria poetica verso una dimensione concettuale, richiamando l’attenzione sugli elementi costitutivi di un quadro, sullo spazio della rappresentazione, sul rapporto tra l’opera e lo spettatore, così come sulla figura dell’autore. Nel corso del tempo le indagini intorno all’opera d’arte lo hanno condotto a includere l’atto espositivo e lo studio d’artista quali ambiti deputati al divenire di un’opera. Il contesto di riferimento di Paolini è la tradizione classica, ispirata alla Bellezza e alla dimensione metafisica dell’arte, estranea alle trasformazioni del mondo e alla vita vissuta.

L’assenza, il silenzio, l’enigma dell’attesa
A cominciare dal primo quadro realizzato nel 1960, Disegno geometrico, i lavori di Paolini non hanno “nulla da dichiarare”: non vogliono comunicare alcunché, per limitarsi a evocare le premesse del loro manifestarsi. Costituiti principalmente da tele bianche, fogli da disegno, cornici vuote, calchi in gesso, elementi di plexiglas e da un vasto repertorio di elementi iconografici, mettono in scena l’attesa di un’immagine, che elude ogni tentativo di fissazione per rimanere sospesa nella dimensione potenziale. Il costante differimento di una presenza definita o di un’apparizione risolutiva lascia spazio alla messa in questione della rappresentazione come tale: all’impalcatura che la annuncia, al catalogo di ipotesi che la precede e al mistero che la preclude allo sguardo immediato.

L’autore e l’opera
Il rifiuto di una posizione assertiva, che già in Disegno geometrico si annuncia come “voto di castità”, corrisponde all’abbandono da parte dell’autore di un ruolo propositivo: anziché attore in scena, preferisce restare anonimo e assumere le vesti dello spettatore, seduto in platea ad aspettare l’inizio della rappresentazione. Frequenti sono così le controfigure silenziose, che osservano un quadro oppure tengono davanti a sé un elemento d’immagine (figure di spalle, valletti, maestri di cerimonia). In altri casi sono le tracce dell’autore eclissato – oggetti, indumenti, scarpe – a testimoniare il suo esilio dal campo d’azione. Per Paolini l’arte accade all’insaputa dell’artista: la sua concezione è immacolata e l’enigma del suo divenire resta insondabile. L’opera preesiste all’autore e lo trascende, a lui non resta che accoglierla, darle ospitalità, predisponendo la scena al suo imprevedibile manifestarsi.

Lo studio d’artista e il tavolo di lavoro
Il luogo per eccellenza deputato all’apparizione di un’opera è l’atelier dell’artista. Da qui la presenza ricorrente di cavalletti, telai, fogli, tele, strumenti di lavoro, un tavolo al centro di una stanza o una veduta vera e propria dello studio di Paolini. Oppure, in chiave metaforica, il motivo della scacchiera inteso come “tavolo di lavoro” sul quale l’artista dispone e ridispone le sue “carte da gioco”. O ancora, mani che trattengono dei fogli, matite che misurano la distanza dal contatto con la tela vergine, figure maschili che osservano cornici, tele, riquadri. Il “tavolo da gioco” è sempre il medesimo, come pure l’irrinunciabile sfida che l’autore affronta ogni volta da capo.

L’occhio, lo sguardo, la visione
Dal lavoro emblematico intitolato Vedo (la decifrazione del mio campo visivo), 1969 ai motivi dell’occhio e del cono visuale sviluppati verso la fine degli anni Settanta, fino ai complessi artifici messi in atto nei decenni successivi, lo sguardo occupa un ruolo privilegiato nel lavoro di Paolini. “Decifrato” nei suoi limiti e nella sua estensione, entra in gioco per misurare la distanza che separa l’occhio dai codici della visione. Da qui la ricorrente contrapposizione tra elementi materiali – rovesciati o frantumati a rivelare il loro peso specifico – e immagini virtuali, evocate per mezzo di disegni in prospettiva o di riproduzioni fotografiche. Veri e propri dispositivi visuali, i lavori di Paolini si configurano come diaframmi tra dimensioni incompatibili: come specchi o filtri che interrogano l’intervallo tra realtà e finzione, intelligibilità e immaginazione.

Frammentazione, sdoppiamento, implosione
Dalle illusioni della rappresentazione alla disillusione della visione, il passo è breve. Il linguaggio di Paolini si caratterizza infatti per l’utilizzo della lacerazione, della frantumazione, dell’esplosione e della dispersione, quali espedienti per suggerire un’incolmabile distanza rispetto a un’entità compiuta, a un modello ideale. La geometria cartesiana che definisce molti dei suoi lavori (trame, griglie, diagonali) finisce per implodere in se stessa, in un caleidoscopico labirinto di sdoppiamenti speculari e moltiplicazioni ad infinitum. Come la configurazione delle opere, così anche la loro messinscena si basa su contrapposizioni complementari, giochi combinatori, regesti e percorsi tautologici, che portano la visione a perdersi fra le sue stesse traiettorie.

Citazione ed evocazione
Sebbene orientato verso l’azzeramento e la sospensione, il lavoro di Paolini non rinuncia mai all’immagine, anzi, si richiama dichiaratamente a un vasto repertorio iconografico. Particolari di opere d’arte, carte stellari, pianeti, cieli, tramonti, architetture antiche, figure femminili, ritratti e scritture si alternano con motivi simbolici quali il cigno, l’oro, la sfera. Riproduzioni fotografiche o fotostatiche, calchi, copie e citazioni costellano i lavori di riferimenti artistici, letterari, filosofici e mitologici, per suggerire un teatro di evocazioni, un vivaio di immagini in cui risuonano echi e riflessi di ogni tempo e luogo. Borges, Roussel, Pirandello, Robbe-Grillet, Calvino... Euclide, Parmenide, Lucrezio, Plotino, Averroè... Prassitele, Fidia, Lotto, Poussin, Velázquez, Chardin, Watteau, Robert, Canova, Ingres, de Chirico... Eco, Narciso, Psiche, Venere, Mnemosine, Orfeo, Icaro, Sisifo... Selinunte, Ebla, Citera, Hierapolis, Itaca...

Maddalena Disch