Abat-jour, 1988

Una grande tela capovolta, sormontata da una mappa stellare accartocciata, è appoggiata in equilibrio precario a un mappamondo, situato al centro di una scacchiera delle medesime dimensioni della tela, allestita al suolo per mezzo di sessantaquattro unità quadrate trattenute da quattro lastre di plexiglas accostate. Le unità bianche sono costituite da cartoncini vergini, mentre quelle fotografiche da scorci di cielo (limpido, annuvolato, nei colori del tramonto e dell’alba, con o senza particolari paesaggistici).
Se la mappa stellare rappresenta la massima apertura ipotizzabile del campo visivo, il mappamondo dal canto suo è un simulacro del mondo inteso come insieme di tutti i soggetti possibili; le fotografie del cielo rinviano all’arco di una giornata intesa come massima dilatazione temporale, mentre la scacchiera è il luogo per eccellenza della congettura. Attraverso la tela intonsa che sfiora il Tutto, schermando l’esito del contatto alla maniera di un abat-jour (come indica il titolo), l’opera mette in scena il gioco stesso della rappresentazione, ovvero il desiderio dell’artista di fare propria una visione assoluta. Un “gioco” rischioso, anzi “proibito”, come suggeriscono la tela capovolta e la mappa accartocciata (metonimia del cielo rovinato al suolo).
Lo stesso tema è stato formulato in una prima versione realizzata nel 1986 (GPO-0567).